
In theaters May 13, 2023
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In abito lungo giallo dello stesso colore delle scarpe – a occhio delle Manolo Blahnik – in piedi sul palco del 7th Avenue Theatre dove sta per andare in onda la prima dell’Inganno perfetto, Helen Mirren fa una cosa insolita: chiede al pubblico in sala di alzare la mano destra. «E ora ripetete con me: giuro solennemente che non racconterò nulla di questo film per non rovinarlo agli altri. Dite: lo giuro». Se qualcuno era curioso di quale fosse la sua posizione sull’annosa questione degli spoiler, ecco la risposta. Qualche minuto prima, si era lasciata andare a un’appassionata difesa dei film visti in sala: «Al buio, circondata da altre persone, su uno schermo enorme: a me piace vederli così, e questo film ancora di più». Accanto a lei, Ian McKellen annuiva divertito. L’inganno perfetto è il primo film che vede queste due leggende dividere lo schermo, e sembra incredibile che nessuno ci abbia pensato prima. «Ne sono sorpreso anche io», mi aveva detto qualche giorno prima il regista in occasione delle interviste con la stampa internazionale. Quel giorno, in un lussuoso albergo di Soho, Mirren si era presentata all’appuntamento in abito viola e cappotto coordinato rosa di Valentino (e sempre con le scarpe gialle). Una visione resa ancora più celestiale dalla sua grazia, dal modo gentile con cui ascolta le domande e formula le risposte, dalla disponibilità a mettersi in posa per la foto ricordo
e dal pudore dietro al quale si nasconde ogni qual volta l’intervistatore formula un giudizio che può assomigliare a un complimento. Ambientato a Londra, L’inganno perfetto è un giallo psicologico con riferimenti neanche troppo velati a Hitchcock. Mirren è Betty McLeish, vedova con una generosa pensione che un bel giorno decide di buttarsi nel mondo del dating online. È così che conosce Roy, distinto signore che nasconde la sua vera natura di manipolatore e truffaldino. Siccome l’ho giurato, di più non posso dire a parte che i due insieme fanno come prevedibile faville e che c’è addirittura una scena di lotta, girata, ci tiene a specificare, «senza controfigure. A pensarci è forse la scena più difficile: non sapevo quanto forte potevo calciare le parti intime di Ian».
Non potendo raccontare in dettaglio la trama, lei come descriverebbe L’inganno perfetto?
Oggi siamo tutti bravi a perdonarci, a dimenticare i torti fatti, le crudeltà inflitte agli altri, le cattiverie, e siamo pronti a darci pacche di approvazione sulle spalle pensando che in fondo quello che abbiamo fatto non è poi così grave. Questo film dice il contrario, ovvero che le colpe del passato prima o poi tornano e ti chiedono il conto.
Non si fugge a noi stessi. Lei ci crede?
Assolutamente. In un modo o nell’altro quello che siamo stati e che abbiamo fatto torna a bussare alla porta, magari non in modo plateale o pubblico, ma torna.
Betty, il suo personaggio, si butta nel dating online.
Uno dei motivi per cui ho accettato il film: una storia con due protagonisti anziani che grazie al cielo non parla né di Alzheimer né di cancro.
I truffatori sono spesso affascinanti. Che cosa li rende tali?
Perché senza fascino e carisma non riuscirebbero mai a portare a termine le loro truffe. Lo charme è ciò che usano per abbindolare il prossimo».
Ne ha conosciuti di personaggi così?
Uno. Un piccolo Bernie Madoff, nel senso che come l’originale era riuscito a farsi dare un sacco di soldi da molta gente, prima di finire in prigione per truffa. A parte questo dettaglio, era un uomo assolutamente affascinante, autoironico, con bei modi, e con questa capacità incredibile di farsi affidare ingenti somme di denaro senza neanche fare lo sforzo di chiederle.
Gli attori sono bravi a mentire?
Al contrario. Il nostro lavoro consiste nell’indagare la possibilità, nell’abitare atteggiamenti differenti nei confronti della vita, e per farlo dobbiamo riesaminare costantemente il mondo che ci circonda attraverso occhi diversi che per forza di cose devono essere sinceri. Recitando, noi attori cerchiamo sempre la verità. Non possiamo permetterci il lusso di provare altro se non quello che vogliamo che il pubblico creda di noi e del nostro personaggio.
Con gli anni e la carriera, questa ricerca della verità diventa automatica, più facile?
Mi piacerebbe rispondere di sì, ma no. Sento di non avere ancora bene la prospettiva di cosa funzioni e di cosa no in un film, in una scena. Alle volte fai dei gesti enormi e non hanno effetto. Altre volte fai dei gesti piccolissimi (muove il dito indice sulla tazza da tè che è sul tavolo, ndr) e il pubblico se ne accorge e gli dà un significato. Quindi non so, davvero.
Recitare è almeno catartico?
Può esserlo. Ricordo anni fa, in un film con Robert Redford: ero sua moglie e lui moriva. Due anni prima era morto mio fratello, ma io mi resi conto solo lì, in quel momento sul set, che non avevo mai davvero elaborato il lutto.
Lei e Ian McKellen avevate fatto teatro insieme. Come è stato ritrovarsi sul set di un film?
Grazie al cielo ci conoscevamo già, se no sarei stata in soggezione. Ian è un’istituzione, il più grande attore inglese vivente. Recitare con lui è sempre un privilegio. Ma guai a dirglielo: si imbarazza.